domenica 26 agosto 2018

Il silenzio - un racconto della montagna di Max Frisch

In esergo: Chi non vuole impegnarsi in una lunga lettura (patacchiata, come dicono alcuni) non è mica obbligato a farla ma lasci a me il diritto di scrivere e la libertà di leggere a chi ne è interessato.
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"Perché non viviamo se sappiamo che saremo qui solo un'unica volta, solo un'unica e irripetibile volta, su questo mondo indicibilmente magnifico!"

Cosa spinge, costringe un uomo, un giovane di 25 anni, ad abbracciare una fredda parete montuosa e ad arrampicarsi lungo un dorsale completamente liscio, dove già tanti hanno trovato la morte?
Ricerca di notorietà, prestigio, fama di eroe?

La parete montuosa è quella nord dell’Eiger, montagna svizzera delle Alpi Bernesi, alta 3967 metri s.l.m. (misura 1600 metri di dislivello, in pratica quasi del tutto verticali)
Già tristemente famosa per le vite umane che ha ghermito, tanto da essere stata denominata ‘Il muro della morte’.

Il giovane si chiama Balz Leuthold, ed è il protagonista in chiave del tutto autobiografica (sebbene con età anagrafiche diverse, 30 lo scrittore, 25 il giovane della narrazione )  del racconto ‘Il silenzio, un racconto della montagna’ dello scrittore Max Frisch, edito da Del Vecchio editore, una meritevole editrice indipendente, un po’ di nicchia (purtroppo).

Balz a pochi giorni dal suo matrimonio, abbandona la fidanzata e calmo e sicuro, per una decisione che si è andata addensando sempre più profondamente nel tempo, si dirige verso la scalata.
Non è la fame di eroe o il brivido dell’impresa che cerca. Ma allora cos’altro, questo viandante solitario?

Lo spinge il rifiuto dell’ordinarietà della vita. Il non muoversi lungo i binari di un cliché di abitudini, costumi e valori che rivestono con panni non propri l’individuo. È come se altri vestissero la nostra pelle e vivessero per noi ovvero noi come poveri attori di una vita senza intelligenza, non costruitasi attraverso una nostra personale ricerca.
L’esigenza imprescrivibile di cancellare tutto ciò che la famiglia, il contesto sociale in cui si vive, che ci circonda ed inconsciamente ci muove (gli idòla fori, spelonca, tribus), ossia pregiudizi, falsi castelli derivati dalle sedimentazioni e risonanze delle parole, teorie e visioni della vita del passato che non corrispondono al reale.
Quante volte abbiamo sentito dire, alla domanda ‘ma perché sei religioso, credente’;
‘ma perché così son cresciuto ed abituato alla religione della mia famiglia e della mia gente’.

Ben diversa invece è la convinzione che si conquista, dopo aver cancellato tutto ciò che ci hanno inculcato, con una ferrea ed intelligente (e faticosa e lunga) ricerca personale.

Gli A-priori di un educazione passiva costitutivi e costrittivi inconsciamente dell’uomo.
Ed eccolo lì, a prima mattina, sotto alla montagna.
C’è arrivato quasi meccanicamente, senza dubbi ed esitazione. Come guidato da un percorso già tracciato da tempo nella sua mente.
Pronto ad iniziare la scalata. Con la quasi certezza dell’insuccesso.

Ma allora, ci chiediamo ancora, qual è il motivo più profondo, nascosto nella vera radice a lui stesso?
La solitudine, la solitudine estrema.”…questa solitudine, che può regalare forze insospettate, anche le faccende umane diventano più semplici e più forti, perdendo il loro aspetto più funesto - la quotidianità…”, scriveva Heidegger in una sua lettera.

Lontano dal ‘romor del monno’ e delle sue voci, solo con sé stesso con l’imo del suo animo che balza fuori terrorizzato dal trovarsi ad un balzo della morte, pronta a presentarsi rapida ed improvvisa.
E la fredda parete a cui si abbraccia non è più bruta ed insensibile roccia ma il diaframma in cui appare e si nasconde uno spiraglio dell’ “ESSERE”, qual che sia esso, Dio o Nulla.

“È come se Dio…mostrasse un altro volto, forse un volto più vero, che non sa nulla degli uomini e non conosce misericordia, senza pietà verso la vita, così muto ed immobile, così pietrificato ed estraneo…” (pag. 88).

E da questo soggiorno precario e temporaneo della scalata, l’Ente, ossia l’uomo, lui, nelle vicinanze dell’Essere, può parlare a sé stesso in un linguaggio basico, lontano dagli influssi e dipendenze sociologiche del suo mondo.
L’ora della verità e del suo chiarirsi e disvelarsi a sé stesso. Una presa di coscienza estrema.
Come sempre è questione di interpretazioni, quella esposta è la mia.
Max Frisch, infatti, nel suo racconto si ferma al ‘Che’, non ci dice il ‘Perché’. Forse per un pudico senso di descrizione troppo aperta del suo intimo?
O forse perché il suo dissidio interno nasce da un conflitto che non potrà mai essere sanato?

“ Anche se scala la montagna, sarà per questo un altro?” (pag. 44).
…È poco modesto che ogni creatura pensi di dover avere un senso. Alla fine siamo solo passaggi, veicoli di una vita che si compiace di sé stessa e basta.” (Pag. 42).

E la vita la si vive una sola volta.
Tutto converge e sfocia allora nell’angoscia, che non è solo ed è ben più della paura della morte, ma consapevolezza di un’esistenza vuota e nel vuoto, e che ci prospetta solo il Nulla.
In contraltare nasce, però, il dubbio, che tien conto anche dei rapporti con gli altri:

“…Non ci sarà la possibilità di rettificare quando si è sprecata la propria vita, non si può tornare indietro nel passato, non si recupera né si aggiusta niente, non c’è misericordia…tutto è definitivo, quello che si fa o che non si fa, ogni errore ed ogni omissione, e che anche quello star seduti non si recupererà mai, che la vita va sempre avanti, inarrestabile, anche se non si sa perché ci si dovrebbe muovere” (pag. 42).

Nella postfazione al libro Peter von Matt evidenzia come Max  non scrisse più nulla per due anni, bruciando anche tutto quello scritto che aveva in cantiere da completare. Una rottura drastica con la parola scritta. “Quando nel 1939 fu richiamato alle armi ’non riuscì più a sopportare la grigio-verde vita quotidiana senza scrivere…” (pag. 108 della postfazione di Peter von Matt).
All’epoca del racconto l’Eiger, marchiata come ‘parete assassina’,  aspettava il successivo condannato a morte. 
A fronte di Max, normale uomo fra noi gente comune, l’altezzosa e delirante ricerca del nazismo hitleriano per l’affermazione della supremazia della razza tedesca e del culto dell’eroe, voleva a tutti i costi che fosse uno scalatore tedesco a compiere l’impresa. 
In netta contrapposizione l’animo e la sensibilità di Max:

” E’ come se questa quiete, questo silenzio che copre il mondo sciogliesse tutti i pensieri; si sente solo il proprio cuore che batte o talvolta il vento che sibila nelle orecchie. E se a volte una taccola nera veleggia sulle rocce per svanire di nuovo con un grido sommesso, questa quiete solitaria rimane, avvolgendo tutta la vita e inghiottendo ogni tumulto come se non ci fosse mai stato, questo silenzio senza nome, che forse è Dio o il Nulla. ”(pag. 27).

"Su una cima non c'è nulla che possa disturbare la felicità, c'è solo questo silenzio senza alcun limite, e quanto è bello stare li con gli occhi chiusi e lasciar filtrare il sole dalle palpebre rosso e blu, e giallo, come la finestra colorata di una chiesa" (pag. 66)
(paolo patrone)

Nota: “Dell’Eiger sono state fatte delle belle riprese cinematografiche mozzafiato, con fantastiche riprese nel film ‘Assassinio sull’Eiger’ (1975), diretto ed interpretato da Clint Eastwood, che volle realizzare da solo tutte le sequenze di arrampicata, senza l'ausilio di controfigure, in base al principio che non poteva chiedere agli altri di rischiare la loro vita se lui stesso non era pronto a rischiarla nelle stesse condizioni…La lavorazione fu funestata da un incidente mortale. Il secondo giorno di riprese sull'Eiger, David Knowles, alpinista e maestro di roccia che lavorava come controfigura, fu colpito da una pietra in parete, e morì. Eastwood pensò di annullare le riprese, ma poi, spinto anche dagli altri alpinisti della troupe, decise di continuare. Una delle prime scene della scalata, quella del passaggio fra i ruscelli, era stata girata pochi minuti prima proprio nel luogo del tragico incidente”, (Wikipedia).

La sacralità della montagna


Non solo lontano dalla folla ma lontano da se stesso nel chiasso delle voci, nel  frastuono del traffico, del vocio delle ‘mosche al mercato’.
Solo, spogliato dalle sovrastrutture del sociale sottostante, a tu per tu con la parte più nascosta dell’IO, l’IO empirico e l’IO culturale, con le verità e le paure ed angosce segrete, che si autosigillano nelle pieghe più nascoste dell’anima. 
Là dove ci ci pare di toccare dal vivo un’ipotetica manifestazione divina nella bellezza della natura, poco contaminata da mani umane, da lei immobile (la montagna), sempre eterna pur nelle metamorfosi di aspetto, sembra guardare a noi, sotto di lei, che a differenza sua, viviamo ma invecchiando ed addolorandoci delle traversie della vita…
Solo la verità, quello che senti e che sei veramente, senza maschere e sotterfugi. 
Lì, fra le rocce imponenti ed immobili, puoi veramente parlare con te stesso, in un mos socratico.
Sempre più inerpicato verso l’alto, a toccare il cielo delle origini, del mistero, ti sembra di essere quasi a contatto esplicativo con il mistero della creazione, nello sgomento del pensiero dell’infinito che irrompe nel finito, il paradosso e scandalo sottolineato da Kierkegaard.
Là dove l’Essere ed il Nulla si liberano dal dogma parmenideo ed eraclito e vivono, tuttavia, nell’essere ora qui del singolo, nelle spire angoscianti della sua storicità, fluttuante fra il bilanciere del tempo meccanico e il patema del tempo della vita fattuale.
Ma questa non è la montagna di tutti i giorni, quella delle passeggiate sportive e disintossicanti, impegnative, o quelle dei bivacchi nei rifugi o, peggio ancora, e quasi me ne vergogno, di quella estetica e rilassante, ad esempi, fatta da me giorni orsono alla base (prima tappa) delle Alpi Devero. No, penso a quella di Max Firsch, che a pochi giorni dalla cerimonia del suo matrimonio decide di abbandonare il ‘romor del monno’ per iniziare la scalata dell’Eiger, la parete assassina, abbracciandone la fredda roccia, non più masso bruto ed insensibile ma diaframma in cui appare e si nasconde uno spiraglio dell’’ESSERE’, qual che sia esso, Dio o Nulla.
Una mia nota recensiva sul libro di Max Frisch subito dopo il presente scritto.

Il mare ha i suoi abissi di profondità, dalle sue acque si dice sia nato e si sia sviluppato l'uomo (Demaillet e l'origine marina dell'uomo), sui suoi fondali più bui conserva relitti, cose, scheletri, forme di vita strana, misteriosa, orrida o meravigliosa, dalle sue acque emerge Venere, la bellezza eterna fatta donna, sulla immensità della sua superficie si riflettono albe e tramonti indescrivibili, un fascino intrigante che accende la fantasia, fa correre il pensiero, muove la penna a favole e nascita di personaggi di eroi e pirati, avventurieri e condottieri che, dalla memoria giovanile, ci accompagnano nel ricordo per tutta la vita.
Ma... ma...la montagna...
La suprema vertiginosa altezza della montagna che tocca il cielo con le sue punte estreme. 
È li, a contatto con il mistero della vita. 
Ha sempre esercitato un fascino misterioso, sia nell'ansia  della ricerca del divino sia come suprema sfida alle limitazioni fisiche dell'uomo. 
Essa racchiude il tenebroso fascino attrattivo della morte e le sue coste ed abissi ne raccolgono anche la morte fisica di quelli che ha ghermito. La morte 'bella', che al suo apparire avvinghia anche i più cinici e scettici e li risucchia nel vortice vertiginoso del pensiero, che si apre e si smarrisce di fronte all'infinito mistero dell'esistenza. 
È la materializzazione del concetto di Kierkegaard, 'L'infinito che irrompe nel finito'. Qualche anno fa le cronache e la TV riportarono di un corpo che era stato restituito dopo tanti,  tantissimi anni dalla montagna. 
Si era mantenuto giovane, intatto come era vigoroso, bello,  allora. 
Lui si sarebbe dovuto sposare  a giorni ed invece aveva trovato  la morte in un'escursione sulle pendici della montagna. 
Giù in paese la sua promessa sposa era tutt'ora in vita, ottantenne, ed aspettava silente a valle, muta, stordita, preda inebetita dalla sovrumana emozione, vergognosa, immotivatamente, nel suo intimo della ragnatele di rughe sul suo viso e dalla vecchiaia del suo corpo, così come l'avrebbe vista LUI, una volta che l'avessero riportato a valle.
 La visione di questi due corpi, quasi in differita, ma presenti invece nella realtà l'un l'altro; lo sposo mancato, vecchissimo, che aveva conservato intatta nei decenni la sua giovinezza, e la vecchia, la donna, la bella sposa di un tempo, con tutte le rughe degli anni, vedova del suo sposo, che lo vedeva ripresentarsi giovane davanti a sè. 
La  ragione vacilla. 
Come fa il pensiero a non smarrirsi di fronte a questa enorme,  lancinante,  lacerazione  della natura, il cui ordine, così come lo conosciamo noi, risulta sconvolto e devastato ?
È il concetto del sublime di Kant, l'immane del bello, ciò che ad un tempo atterrisce ed annichilisce, il mostruoso (nell'accezione del termine 'fenomeno fuori dall'ordinario' 
Ma il sublime è un prodotto delle rocce (hanno forse esse un'anima) o è soffio dell'animo umano ?):  ...la vera sublimità non dev' essere cercata se non nell’animo di colui che giudica, e non nell’oggetto naturale.”
“….come si potrebbero chiamare sublimi masse montuose informi, poste l’una sull’altra in un selvaggio disordine, con le loro piramidi di ghiaccio, ed altre cose di questo genere?…”, (Kant).
 Pensiero notevole che pone l'animo umano ai vertici dell'esistenza, in perfetto comunione con quanto afferma Diderot (come non essere colpti da queste analogie del pensiero dei grandi del passato ?) alla voce 'Encyclopédie' :
"Una considerazione soprattutto non bisogna perdere di vista ed é che se si bandisce l'uomo …(omissis) dalla superficie della terra, lo spettacolo patetico e sublime della natura non é più che una scena triste e muta.
L'universo tace, il silenzio e la notte se ne impadroniscono.
Tutto si muta in una vasta solitudine dove i fenomeni inosservati trascorrono muti e sordi .
E' la presenza dell'uomo che rende interessante l'esistenza degli esseri…".
Il mare, la montagna, la vita, la morte...,


martedì 21 agosto 2018

Insolito Pirandello

Una bella pagina di un insolito Pirandello. 

Come una lieve carezza romantica, in cui si stempera anche il sentimento della crudezza della realtà, qui è un anziano signore che, seduto nel suo studio, si lascia andare con il pensiero ad un vecchio ricordo, che rivive, oramai, fuori dallo scorrere nel tempo; reale solo nell’immaginazione della memoria e pertanto molto più possente perché non piegato alla necessità del vivere esistente.
E il ricordo prende vita come in una visione sfumata intravista attraverso il molle ondeggiare di un velo, o, meglio, un ricordo dipinto proprio sul velo, mosso da una seducente discreta e intrigante brezzolina.
Qui si allontanano anche le tematiche classiche di Pirandello. Non più in risalto il sentimento del contrario nè l’accenno alla realtà difficile ed illogica dell’esistenza della persona (che nel suo etimo che significa maschera, quale noi tutti siamo agli altri ed a noi stessi).
Persona nella poliedricità del suo dispiegarsi, annegata e naufragante nel vivere quotidiano. 
Tematiche che si allontanano, come dicevo, ma non del tutto, anzi nel ricordo creatore del possibile (e come tale sottratto all’ordine logico della vita), si trasformano in una rivincita sulla necessità dell’essere.
È il Mattia Pascal che risorge vincente dalla sconfitta. L’uomo che aveva cercato di fuggire dal baratro della vita quotidiana che lo soffocava e che amaramente aveva dovuto constatare che la prigione non è nel luogo ma nell’anima, con tutte le matrici del vissuto e delle sue conoscenze. 
Qui è ora il forte sentimento del contrario, avverso alla vita tiranna con le sue leggi, che scavalca e vince queste leggi e fa dire alla donna del ricordo: «Guardami ora, guardami ancora, come ero e come sono bella ». 
(paolo patrone)

Dal brevissimo racconto ‘Visita’, della raccolta ‘Una giornata’ (6 pagg. in tutto), da cui ho tratto un piccolo passo, e la breve chiusa del racconto.

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“La conosco appena (morta, dovrei dire: "la conoscevo appena", ma lei è qua ora come nell'assoluto d'un eterno presente, e posso dir dunque: la conosco appena), l'ho veduta una volta sola in una riunione festiva nel giardino d'una villa di comuni amici, a cui lei è venuta con quest'abito bianco d'organdis.
In quel giardino, quella mattina, le donne più giovani e più belle avevano quell'ardore sfavillante che nasce in ogni donna dalla gioia di sentirsi desiderata. S'eran lasciate prendere nel ballo e, sorridendo, ad accendere di più quel desiderio, avevan guardato sulle labbra così d'accosto l'uomo da sfidarlo irresistibilmente al bacio. Ma di primavera, momenti di rapimento, col tepore del primo sole che inebria, quando nell'aria molle è pure un vago fermento di sottili profumi e lo splendore del verde nuovo, che dilaga nei prati, brilla con vivacità così eccitante in tutti gli alberi intorno; strani fili di suono luminosi avviluppano; improvvisi scoppi di luce stordiscono; lampi di fughe, felici invasioni di vertigini; e la dolcezza della vita non par più vera, tanto è fatta di tutto e di niente; né vero più, né da tenerne più conto, ricordando poi nell'ombra, quando quel sole è spento, tutto ciò che s'è fatto e s'è detto. Sì, m'ha baciata. Sì, gliel'ho promesso. Ma un bacio appena sui capelli, ballando… 

La padrona dì casa, con cui mi trovavo, mi volle presentare a lei mentr'era ancor china a rassettare le testoline scapigliate e le vesti in disordine a quei bambini. Nel rizzarsi d'improvviso per rispondere alla presentazione, la signora Anna Wheil non pensò di rassettarsi anche lei sul petto l'ampia scollatura di quel suo abito d'organdis; sicché io non potei fare a meno d'intravedere del suo seno forse più di quanto onestamente avrei dovuto. Fu solo un attimo. Subito portò la mano a ripararselo. Ma dal modo con cui, in quell'atto che volle parer furtivo, mi guardò, compresi che della mia involontaria e quasi inevitabile indiscrezione non s'era per nulla dispiaciuta….
Ma oltre a questa tacita intesa , durata un attimo, per sempre, non ci fu altro tra noi…

Me la ritrovo ora qua accanto, in quest'aria verde, in questa luce del mio studio, vestita come tre anni fa del suo abito bianco d'organdis.
- Il mio seno, se sapessi! Ne sono morta. Me lo hanno reciso. Un male atroce ne fece scempio due volte. La prima, un anno appena dopo che tu, di qua, ricordi? me lo intravedesti. Ora posso allargare con tutt'e due le mani la scollatura e mostrartelo tutto, com'era, guardalo! guardalo! ora che non sono più.
Guardo; ma sul divano è solo il bianco del giornale aperto.”

I tempi di My Darling Clementine

Le pietre miliari del cinema (Perché lasciarle sepolte nella polvere del tempo ?)

My Darling Clementine *

Henry Fonda con il piede mollemente appoggiato al paletto della veranda del saloon, lasciandosi cullare dal movimento ritmico del dondolo, cui era seduto, ed a cui imprimeva distrattamente il movimento con il piede, avvolto dalle nuvolette di fumo del sigaro, che aspirava con lentezza, mentre la mente vagava senza pensieri.
Che voglia di riprendere a fumare.
Ricordo la bella recensione sul retro copertina di un albo de 'El Coyote' del 1949 1950 (da me recuperato qualche anno dopo su di una bancarella, in una raccolta rilegata alla casalinga del dopoguerra, che possiedo ancora ed a cui recentemente ho dato una rilegatura più nobile), che destinava questo film ad ad un posto eterno nell'Olimpo cinematografico.
Ma dove, di eterno non c'è nulla. Chi ne sa più qualcosa di questo film.
Fortunatamente che oltre la molla commerciale c'è anche un altro alito che sta registrando tantissimi bei film del passato. L'avanzare della tecnica non sempre è da condannare.

Nel 1957 una nuova versione con i grandi Burt Lancaster e Kirk Douglas, con la meravigliosa musica di Dimitri Tiomkin e la stupenda voce di Frankie Laine all'inizio del film. Film più moderno, grandioso, indimenticabile, ma il mio cuore e il mio pensiero vanno alla dolce Clementina. (paolo patrone)

* Oh mia dolce Clementina. "In Italia si preferì titolare il film “Sfida Infernale”, che certamente poteva avere un impatto migliore sul pubblico (che qui da noi, si sa, se non gli sbandieri i vetri colorati davanti agli occhi...), ma in realtà disperde il significato del film stesso, che appunto John Ford e la Produzione intitolarono “My Darling Clementine” proprio per esaltare il personaggio di Clementine, che rappresenta il futuro di Wyatt Earp dopo aver trovato la sua vendetta. Un capolavoro irripetibile."

lunedì 20 agosto 2018

La foto di Orta

La foto di Orta, di Laura Pariani, editrice Interlinea.

“Su quel piccolo lago era sospesa una nota malinconica e languida che faceva bene all’anima”

La foto di Orta non è un saggio, non è biografico dell’autrice, non è biografico di Nietzsche.
La casa editrice ‘Interlinea’ lo dà sotto la voce romanzo.
Forse lo si può catalogare, più propriamente, sotto la voce romanzo-biografico.
Romanzo in quanto non sa e non descrive segnatamente di episodi storici della vita del filosofo.
Biografico per lo scavo condotto con accentuata sensibilità immaginativa e penetrazione psicologica, talché non sussunto sotto la specie del vero ma senz’altro del possibile verosimile.
Inizialmente ho provato un senso di fastidio e ricusazione alla descrizione di Nietzsche, il filosofo dinamite, come quella di un uomo minato nel fisico, debole, tormentato psichicamente e fisicamente dalla rosicazione del male della malattia in inclemente progressione. Incapace di reagire con ferma volontà allo sgretolarsi della sua personalità, inetto di fronte alla prepotenza astiosa della sorella.
Appariva quasi un attacco con accentuazione derisorio femminile alla figura dell’uomo consegnato alla fame della storia.
Procedendo poi nella lettura ho rilevato il mio errore. Tutto il fino procedere nell’immaginazione di quello che può essere stato il sentire e soffrire personale dell’uomo, è condotto con grande partecipazione e simpatia per lui.
Il più delle volte nei numerosi incisi in corsivo dei sentimenti personali dell’autrice, c’è quasi una fusione amalgamante di visioni e riflessioni sulla vita, seppur ciascuno nell’alveo della propria esistenza esperienziale.
A tratti, in ispecie verso la fine dell’opera, commovente e partecipativa.
All’autrice le sono occorsi due anni di ricerche biografiche, di acquisizioni di notizie storiche dei luoghi, abitudini, consultazioni di reperti e documenti di vario genere, in un amalgama di indagini e riflessioni.
Un percorso impervio e una capacità immaginativa notevole a crescita dello scalpello che ha cercato di incidere un’immagine vibrante del filosofo e del declino mentale dei suoi ultimi anni.
Molto particolare il lessico personale dell’autrice, che porta direttamente alla vista l’immagine che vuole evidenziare senza passare per la descrizione testuale.
Il clou della narrazione si incentra sul sentimento di catastrofica delusione e di naufragio psicologico, con note quasi paranoiche, del filosofo al rifiuto di Lou Salomè di sposarlo.
La filigrana dell’opera è una foto di Nietzsche assieme a Lou, fatta ad Orta.
Di questa foto si ha soltanto una menzione da parte del filosofo, essendo la stata la stessa fatta a pezzi, pare, dalla di lui sorella.
(paolo patrone, 18 agosto 2018)

Due passi dell’opera:

“Ché, forse tutte le persone che, come te, scrivono, lo fanno a causa di una sorte di insoddisfazione nei confronti della realtà, per cui si sentono spinte a correggerla, a ricostruirla in un universo di immagini e storie tutte loro. Anzi si potrebbe dire che la tua fortuna è proprio la scrittura.”.

“Come potrei non scrivere di questo personaggio, volgere lo sguardo dall’altra parte strapparmi da lui? In questi due anni che ho passato con te, seguendoti nel tuo pellegrinaggio di ricordi ortesi, quella fotografia poco a poco sono riuscita a ricostruirla. Come sfondo, l’argento del lago sotto le nubi del pomeriggio, col profilo dell’isola di San Giulio, le barche coperte e le lavandare…colori smorti, disseccati come quelli della foglia spumosa d’agrifoglio che conservasti per anni nel tuo Badeker, chiusa in un foglietto piegato con la scritta “Orta, Monte Sacro, 5 maggio 1882”. Mi aggrappo a questa ipotetica immagine che mi sono costruita come fosse un ponte tra il tuo vero essere e me, un nesso che va al di là delle cose che tu hai lasciato scritte. E cerco di crearmi un vuoto mentale, mentre mi accingo a raccontare il finale della storia. Nei dintorni dell’anima, dove io non sono più.”.

Mia nota: Lou Andreas-Salomè è stata una donna stranissima ma di gigantesca dimensione culturale, filosofica e psicologica. Di rara penetrazione i suoi saggi, contributi e intuizioni psicanalitiche. Vergine fino all’età di 36 anni, soggiogò personalità come Nietzsche e Freud. Del primo, cui comunque indirizzò il sentiero di Zarathustra, accese l’insulto memorabile di una missiva a lei dedicata, il secondo, Freud, invece, contro quello che era la sua natura, lo mandò su tutte le furie. Eppure lei ne «L’umano come donna» aveva scritto «La donna deve assoggettarsi all’uomo con umiltà, spontaneamente e prontamente», ritenendo, molto probabilmente, la donna superiore all’uomo come adattamento alle situazioni e quindi di essere in grado di assumere entrambi il ruoli, quella della libertà, capacità e patrimonio irrinunciabile e come costola di Adamo.
Luca Colferai, nella bella chiusa di un suo articolo, scrive: “Lou von Salomé (in Andreas) morì nel 1937 a Gottinga a settantasei anni nel sonno, nella Germania turpemente nazista. Il mondo stava cambiando e sarebbe cambiato sempre di più. Di quel turbinio di filosofi poeti psicologi incantati a scrutare negli abissi, vertiginosamente in corsa tra le capitali d’Europa, furiosamente anelanti a traguardi inarrivabili, molto dediti a stupefacenti e trastulli indecenti, tanto ammantati di concetti e parole tragicamente immensi, di cui Lou Salomé fu musa partecipe e testimone attivo, non sarebbe rimasto più nulla”.
(paolo patrone 18 agosto 2108)

Il silenzio - un racconto della montagna di Max Frisch

In esergo: Chi non vuole impegnarsi in una lunga lettura (patacchiata, come dicono alcuni) non è mica obbligato a farla ma lasci a me il dir...