domenica 26 agosto 2018

Il silenzio - un racconto della montagna di Max Frisch

In esergo: Chi non vuole impegnarsi in una lunga lettura (patacchiata, come dicono alcuni) non è mica obbligato a farla ma lasci a me il diritto di scrivere e la libertà di leggere a chi ne è interessato.
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"Perché non viviamo se sappiamo che saremo qui solo un'unica volta, solo un'unica e irripetibile volta, su questo mondo indicibilmente magnifico!"

Cosa spinge, costringe un uomo, un giovane di 25 anni, ad abbracciare una fredda parete montuosa e ad arrampicarsi lungo un dorsale completamente liscio, dove già tanti hanno trovato la morte?
Ricerca di notorietà, prestigio, fama di eroe?

La parete montuosa è quella nord dell’Eiger, montagna svizzera delle Alpi Bernesi, alta 3967 metri s.l.m. (misura 1600 metri di dislivello, in pratica quasi del tutto verticali)
Già tristemente famosa per le vite umane che ha ghermito, tanto da essere stata denominata ‘Il muro della morte’.

Il giovane si chiama Balz Leuthold, ed è il protagonista in chiave del tutto autobiografica (sebbene con età anagrafiche diverse, 30 lo scrittore, 25 il giovane della narrazione )  del racconto ‘Il silenzio, un racconto della montagna’ dello scrittore Max Frisch, edito da Del Vecchio editore, una meritevole editrice indipendente, un po’ di nicchia (purtroppo).

Balz a pochi giorni dal suo matrimonio, abbandona la fidanzata e calmo e sicuro, per una decisione che si è andata addensando sempre più profondamente nel tempo, si dirige verso la scalata.
Non è la fame di eroe o il brivido dell’impresa che cerca. Ma allora cos’altro, questo viandante solitario?

Lo spinge il rifiuto dell’ordinarietà della vita. Il non muoversi lungo i binari di un cliché di abitudini, costumi e valori che rivestono con panni non propri l’individuo. È come se altri vestissero la nostra pelle e vivessero per noi ovvero noi come poveri attori di una vita senza intelligenza, non costruitasi attraverso una nostra personale ricerca.
L’esigenza imprescrivibile di cancellare tutto ciò che la famiglia, il contesto sociale in cui si vive, che ci circonda ed inconsciamente ci muove (gli idòla fori, spelonca, tribus), ossia pregiudizi, falsi castelli derivati dalle sedimentazioni e risonanze delle parole, teorie e visioni della vita del passato che non corrispondono al reale.
Quante volte abbiamo sentito dire, alla domanda ‘ma perché sei religioso, credente’;
‘ma perché così son cresciuto ed abituato alla religione della mia famiglia e della mia gente’.

Ben diversa invece è la convinzione che si conquista, dopo aver cancellato tutto ciò che ci hanno inculcato, con una ferrea ed intelligente (e faticosa e lunga) ricerca personale.

Gli A-priori di un educazione passiva costitutivi e costrittivi inconsciamente dell’uomo.
Ed eccolo lì, a prima mattina, sotto alla montagna.
C’è arrivato quasi meccanicamente, senza dubbi ed esitazione. Come guidato da un percorso già tracciato da tempo nella sua mente.
Pronto ad iniziare la scalata. Con la quasi certezza dell’insuccesso.

Ma allora, ci chiediamo ancora, qual è il motivo più profondo, nascosto nella vera radice a lui stesso?
La solitudine, la solitudine estrema.”…questa solitudine, che può regalare forze insospettate, anche le faccende umane diventano più semplici e più forti, perdendo il loro aspetto più funesto - la quotidianità…”, scriveva Heidegger in una sua lettera.

Lontano dal ‘romor del monno’ e delle sue voci, solo con sé stesso con l’imo del suo animo che balza fuori terrorizzato dal trovarsi ad un balzo della morte, pronta a presentarsi rapida ed improvvisa.
E la fredda parete a cui si abbraccia non è più bruta ed insensibile roccia ma il diaframma in cui appare e si nasconde uno spiraglio dell’ “ESSERE”, qual che sia esso, Dio o Nulla.

“È come se Dio…mostrasse un altro volto, forse un volto più vero, che non sa nulla degli uomini e non conosce misericordia, senza pietà verso la vita, così muto ed immobile, così pietrificato ed estraneo…” (pag. 88).

E da questo soggiorno precario e temporaneo della scalata, l’Ente, ossia l’uomo, lui, nelle vicinanze dell’Essere, può parlare a sé stesso in un linguaggio basico, lontano dagli influssi e dipendenze sociologiche del suo mondo.
L’ora della verità e del suo chiarirsi e disvelarsi a sé stesso. Una presa di coscienza estrema.
Come sempre è questione di interpretazioni, quella esposta è la mia.
Max Frisch, infatti, nel suo racconto si ferma al ‘Che’, non ci dice il ‘Perché’. Forse per un pudico senso di descrizione troppo aperta del suo intimo?
O forse perché il suo dissidio interno nasce da un conflitto che non potrà mai essere sanato?

“ Anche se scala la montagna, sarà per questo un altro?” (pag. 44).
…È poco modesto che ogni creatura pensi di dover avere un senso. Alla fine siamo solo passaggi, veicoli di una vita che si compiace di sé stessa e basta.” (Pag. 42).

E la vita la si vive una sola volta.
Tutto converge e sfocia allora nell’angoscia, che non è solo ed è ben più della paura della morte, ma consapevolezza di un’esistenza vuota e nel vuoto, e che ci prospetta solo il Nulla.
In contraltare nasce, però, il dubbio, che tien conto anche dei rapporti con gli altri:

“…Non ci sarà la possibilità di rettificare quando si è sprecata la propria vita, non si può tornare indietro nel passato, non si recupera né si aggiusta niente, non c’è misericordia…tutto è definitivo, quello che si fa o che non si fa, ogni errore ed ogni omissione, e che anche quello star seduti non si recupererà mai, che la vita va sempre avanti, inarrestabile, anche se non si sa perché ci si dovrebbe muovere” (pag. 42).

Nella postfazione al libro Peter von Matt evidenzia come Max  non scrisse più nulla per due anni, bruciando anche tutto quello scritto che aveva in cantiere da completare. Una rottura drastica con la parola scritta. “Quando nel 1939 fu richiamato alle armi ’non riuscì più a sopportare la grigio-verde vita quotidiana senza scrivere…” (pag. 108 della postfazione di Peter von Matt).
All’epoca del racconto l’Eiger, marchiata come ‘parete assassina’,  aspettava il successivo condannato a morte. 
A fronte di Max, normale uomo fra noi gente comune, l’altezzosa e delirante ricerca del nazismo hitleriano per l’affermazione della supremazia della razza tedesca e del culto dell’eroe, voleva a tutti i costi che fosse uno scalatore tedesco a compiere l’impresa. 
In netta contrapposizione l’animo e la sensibilità di Max:

” E’ come se questa quiete, questo silenzio che copre il mondo sciogliesse tutti i pensieri; si sente solo il proprio cuore che batte o talvolta il vento che sibila nelle orecchie. E se a volte una taccola nera veleggia sulle rocce per svanire di nuovo con un grido sommesso, questa quiete solitaria rimane, avvolgendo tutta la vita e inghiottendo ogni tumulto come se non ci fosse mai stato, questo silenzio senza nome, che forse è Dio o il Nulla. ”(pag. 27).

"Su una cima non c'è nulla che possa disturbare la felicità, c'è solo questo silenzio senza alcun limite, e quanto è bello stare li con gli occhi chiusi e lasciar filtrare il sole dalle palpebre rosso e blu, e giallo, come la finestra colorata di una chiesa" (pag. 66)
(paolo patrone)

Nota: “Dell’Eiger sono state fatte delle belle riprese cinematografiche mozzafiato, con fantastiche riprese nel film ‘Assassinio sull’Eiger’ (1975), diretto ed interpretato da Clint Eastwood, che volle realizzare da solo tutte le sequenze di arrampicata, senza l'ausilio di controfigure, in base al principio che non poteva chiedere agli altri di rischiare la loro vita se lui stesso non era pronto a rischiarla nelle stesse condizioni…La lavorazione fu funestata da un incidente mortale. Il secondo giorno di riprese sull'Eiger, David Knowles, alpinista e maestro di roccia che lavorava come controfigura, fu colpito da una pietra in parete, e morì. Eastwood pensò di annullare le riprese, ma poi, spinto anche dagli altri alpinisti della troupe, decise di continuare. Una delle prime scene della scalata, quella del passaggio fra i ruscelli, era stata girata pochi minuti prima proprio nel luogo del tragico incidente”, (Wikipedia).

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